Pianeta lavoro
7 maggio 2013
La grave notizia dei fatti del Bangladesh, dove molte donne
operaie impegnate in uno stabilimento tessile locale sono morte per l’incendio
ed il crollo dello stabile in cui era ubicata questa “fabbrica”, mi aveva già
stuzzicato il desiderio di scrivere qualche riga in merito, ma la frenesia
quotidiana mi avevano fatto perdere l’attimo. Ieri però, in posta elettronica
mi è stata recapitata una “richiesta di aiuto” inerente questo fatto,
accompagnato da una lettera presentazione.
La lettera che vi sottopongo nella sintesi delle prime
battute, scritta da un’associazione a sfondo umanitario immagino, mi ha dato lo
spunto necessario. Considerando inoltre che l’argomento trattato, da ormai
vent’anni, è il mio stesso “campo” di lavoro quotidiano, capite bene che non
potevo esimermi da proporvi una riflessione;
“Cari amici,
Centinaia di donne in Bangladesh sono bruciate vive o
rimaste seppellite mentre producevano i “nostri” vestiti! Tra pochi giorni,
grandi aziende della moda potrebbero firmare un accordo che potrebbe rivelarsi
un potente strumento per le norme sulla sicurezza o una campagna pubblicitaria
di basso livello per risollevare l’immagine delle aziende. Se un milione di noi
riuscirà a ottenere il sostegno degli amministratori delegati di H&M e GAP
a favore di norme utili davvero a salvare delle vite, gli altri li seguiranno:
Abbiamo visto tutti le orribili immagini di centinaia di
donne innocenti bruciate o seppellite sotto il crollo delle fabbriche mentre
producevano i nostri vestiti. Nei prossimi giorni possiamo fare in modo che le
aziende si impegnino perché fatti come questi non accadano più.
Le grandi marche della moda appaltano i loro vestiti a
centinaia di aziende in Bangladesh. Due aziende, tra cui Calvin Klein, hanno
firmato un patto vincolante per la sicurezza degli edifici con adeguamenti
antincendio. Altre, tra cui Wal-Mart o Benetton, stanno cercando di evitare di
firmare, proponendo invece alternative deboli e utili solo all’immagine
dell’azienda. L’ultima tragedia ha però dato vita a dei nuovi incontri per
affrontare l’emergenza e ha generato forti pressioni perché il patto
vincolante, in grado di salvare delle vite, venga firmato.” (…)
Senza voler sminuire la drammaticità di quanto successo,
desidero fare subito un appunto di tipo formale: non è corretto scrivere i
“nostri” vestiti, in quanto non siamo noi, acquirenti o normali cittadini a
decidere dove acquistare i vestiti all’estero, ma le aziende che
commercializzano sulla base del costo del lavoro e margine di ricavo netto. Il
testo quindi, a mio avviso, mira a colpevolizzare o a far sentire responsabili
i consumatori finali, che sono al contrario gli unici a non avere colpe e a non
avere guadagno alcuno sull’argomento. Altro appunto, questo, molto meno formale,
riguarda la spiacevole sensazione di rilevare nel testo riportato, un fine
recondito, un interesse particolare della stessa organizzazione che ha scritto
la presentazione. Quando scrivo che la ditta “X” è meritevole di attenzione
perché intende firmare un accordo, mentre la ditta “Y” non lo è perché
l’accordo vorrebbe modificarlo, è come se mi schierassi chiaramente pro e
contro. Questo non è opportuno, soprattutto quando si tratta di organizzazioni
che desiderano essere al di sopra delle parti o tenersi lontane dall’idea di un
conflitto di interesse.
Detto questo, entriamo invece, nel merito dell’argomento
vero e proprio.
Il progetto di coinvolgimento e moralizzazione proposto, è
tanto utopico quanto inattuabile, e anche quando, tutte le società che contano
dovessero aderire a questa regolamentazione di maggior sicurezza, la situazione
dei lavoratori di questi paesi, non cambierebbe in meglio.
Anni fa infatti, c’era già stata una “crociata”
moralizzatrice che mirava ad evitare il lavoro minorile; vennero stilati
manuali etici di centinaia di pagine, firmati e controfirmati da tutte le
aziende che lavoravano delocalizzate all’estero o commercializzavano dagli
stessi paesi oggi interessati da questo “problema” di sicurezza. Il risultato
fu completamente nullo. Tutte le aziende che contano però, poterono contare da
allora su una normazione che regolava la questione del comportamento etico da
tenere nei rapporti con questi mercati. Da perfetti ipocriti ci sentimmo
“puliti” facendo finta di non sapere al contrario, che tutto continuava
svolgersi esattamente come prima… anzi peggio di prima.
Inizialmente infatti, era la grossa azienda conosciuta che
delocalizzava il suo lavoro direttamente all’estero, mettendoci la sua faccia.
In seguito invece, per questioni di opportunismo selvaggio, questo lavoro
cominciò a filtrare attraverso sub appaltatori, che presero a garantire la
pulizia dei Marchi, accollandosi contemporaneamente l’onere di farsi un grosso
baffo dell’etica sul lavoro minorile e la sicurezza dei lavoratori, pur di
assicurarsi il miglio prezzo possibile.
Questa “regola” universale, è valida per ogni tipologia di
prodotto tessile, dal più prestigioso al più economico, in barba ad ogni sogno
moralizzatore e a ogni buon gusto.
Signori sindacati, radical shic, scandalizzati e idealisti…
fatevene una ragione!
Vince sempre il DENARO!
Ciò però, non succedeva, quando, il mercato del lavoro, era
protetto da forme legislative e doganali che rendevano non “interessante” la
migrazione del lavoro. Certo in India così come in Bangladesh o altri paesi del
terzo mondo, il lavoro minorile e la scarsa sicurezza sul lavoro erano comunque
presenti, ma se non altro, ciò non dipendeva dalle aziende o dai marchi
tessili, ...quindi dal guadagno, ma dalle legislazioni e dalle culture di quegli
stessi Paesi.
Parallelamente a ciò, il lavoro in senso lato, non
rappresentava solo una forma di arricchimento, ma anche e soprattutto una
funzione sociale e culturale di ogni Nazione, attraverso la garanzia della
completa occupazione della sua popolazione.
Il progresso ottenuto in questi ultimi vent’ anni, con il
liberismo quindi, attraverso la globalizzazione del mercato del lavoro, ha
totalmente eliminato l’aspetto sociale, culturale e civilizzatrice
dell’occupazione, del lavoro, del fare impresa, sostituendo questi valori con
la viltà e brutalità del solo interesse, dell’opportunismo, del guadagno. Poco
importa insomma se in casa nostra abbiamo migliaia di disoccupati, sostituiti
nel terzo mondo da milioni di schiavi bambini o schiavi sfruttati a rischio
della loro vita per questioni di sicurezza lavorativa. È il guadagno che conta,
del resto, chissenefrega!
Sorrido quindi all’ingenuità di certi idealisti, che pensano
di rovesciare questo stato di cose con un milione di firme… che pensano di
poter vincolare gli interessi delle grosse multinazionali della moda attraverso
regolamenti o sensibilizzazioni etiche… che ritengono di poter vincere una
guerra raggiungendo un accordo su buone intenzioni generali ecc. ecc.
Viene da chiedersi da che mondo provengano. Costoro sono
terrestri?
Non bisogna comunque prendersela soltanto con chi, pur
facendo un errore di valutazione e di intervento, ha evidenziato il problema,
che resta ed è ben presente e reale.
Limitandomi a parlare dell’Italia manifatturiera, è
opportuno evidenziare che le responsabilità risiedono dell’incuria, nella
negligenza e negli interessi dei nostri politici. Il settore tessile, così come
ogni altro settore industriale italiano è stato lasciato in balia
dell’invasione dei prodotti provenienti dal terzo mondo per l’interesse di
pochi e pochissimi. La nostra industria, quella sana e attaccata a suo lavoro,
e al valore delle cose ben fatte, non ha avuto nessun sostegno da parte delle
istituzioni. Non ci sono state difese al Parlamento Europeo. Così un patrimonio
costruito nei secoli, è stato dilapidato in vent’anni ed è oggi praticamente
scomparso. Le realtà tessili di Biella e di Prato, diventano emblematica di
altre situazioni italiane. Sono città queste, che possono essere indicate a
simbolo della situazione disastrosa e forse irreversibile in cui si trova gran
parte della piccola, media e grande industria italiana, schiacciata nella
morsa, tra mercati sempre più recalcitranti a comprare i nostri prodotti e un
sistema bancario che sembra divertirsi a inventare sempre nuove regole per
restringere il credito alle imprese.
Quante aziende dovranno ancora chiudere, quante persone
dovranno ancora perdere i loro posti di lavoro, quanti giovani italiani
dovranno sentirsi inadeguati e quanti schiavi nel terzo mondo dovranno morire
prima che qualcuno chieda scusa e ammetta che l’intera politica industriale
italiana, europea e globalizzata degli ultimi vent’anni è stato un colossale
abbaglio?.
Alberto Conterio
Italia Reale- Stella e Corona
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