Eurolandia: dopo
l’austerità la precarietà
L’annuncio di qualche settimana fa del Presidente del
Consiglio Matteo Renzi di voler effettuare sgravi fiscali ai lavoratori
dipendenti e una riduzione del 10% dell'Irap alle imprese per un valore
complessivo di 10 miliardi di euro ha ben poco di sensazionale ed innovativo.
Si muove infatti sulla linea tracciata da messer Monti. La copertura della
manovra verrà in parte attuata aumentando la pressione fiscale agli stessi
cittadini, che in parte, solo in parte, sono interessati agli aumenti promessi
in busta paga. Il gioco delle tre carte insomma, in cui, i soldi che entrano
nella tasca di destra sono usciti poco prima dalla tasca di sinistra o
viceversa, ma occorre fare attenzione ad un argomento ben più importante: la
parte mancante della copertura!
Renzi spiega che arriverà dalla possibilità di aumentare il
rapporto debito/Pil fino al limite del 3% sancito dai trattati europei.
In realtà, se la crescita effettiva del Pil, prevista, sarà
ancora una volta inferiore a quanto previsto – come successo gli anni passati e
confermato nei dati molto negativi del primo trimestre di quest’anno – questo
limite potrebbe essere già superato mentre scriviamo, e quindi potrebbe aprirsi
un contenzioso in seno all’Unione europea!
Tuttavia, per ora Angela Merkel non sembra volere insistere
su questa anomalia dei nostri conti pubblici. L'attenzione, piuttosto, sembra
rivolta all'impegno del governo italiano a realizzare nuove riforme del mercato
del lavoro. L’approvazione in questi giorni di una serie di provvedimenti
raccolti in un Decreto dal titolo “disposizioni urgenti per favorire il
rilancio dell'occupazione …” , sembrano confermare questa ipotesi, che del
resto era stato previsto dal "monito degli economisti" pubblicato lo
scorso 23 settembre sul Financial Time. Questo documento prevedeva infatti che
per fronteggiare la crisi dell'eurozona si sarebbe presto passati da politiche di
austerity (malviste dai cittadini di mezza Europa) a scommette su politiche di
ulteriore flessibilità dei contratti di lavoro.
La riforma che in questi giorni è stata approvata senza che
vi siano state particolari discussioni in Parlamento, grazie all’uso
indiscriminato e colpevole dei voti di fiducia, si sta movendo, guarda caso, in
questa direzione con grande scorno del sindacato!
Purtroppo nemmeno questa ricetta trova riscontri adeguati:
la ricerca economica ha infatti evidenziato che la flessibilità dei contratti
da un lato agevola la creazione di posti di lavoro ma dall'altro favorisce la
loro distruzione, determinando così un effetto finale del tutto incerto o pari
a zero sul livello di occupazione. L’occupazione, a parità di capacità
produttiva è direttamente proporzionale alla quantità di lavoro disponibile. Se
il lavoro non c’è, non viene creato con un grado maggiore di flessibilità dei
contratti. Questa flessibilità però serve a creare ulteriore insicurezza tra i
lavoratori, favorendo quindi il clima ideale per la riduzione di salari e
stipendi.
La momentanea maggior competitività delle aziende ottenuta
in questo modo (sempre che ciò avvenga nella misura necessaria) verrà in breve
vanificato da una ulteriore contrazione dei consumi interni, dato dal minor
reddito delle famiglie italiane, in una spirale volta alla distruzione della
nazione.
Occorre poi riflettere, che la tanto invocata flessibilità
del mercato del lavoro è nemica della produttività e della qualità della
produzione. Personale demotivato da salari da fame, dall’insicurezza sulla
continuità del rapporto di lavoro e dalla palese discriminazione nei confronti
di lavoratori tutelati da alte forme di contrattazione, non avrà mai lo stimolo
necessario a perseguire una produttività elevata, e meno che mai avrà lo
stimolo a fare del suo lavoro un lavoro di qualità.
Perché perseguire questa strada quindi?
Perché la grande industria, o le grandi multinazionali,
grazie alla estrema parcellizzazione del ciclo produttivo, non hanno bisogno di
lavoratori con una esperienza provata, motivati e fedeli, ma al contrario, hanno
bisogno di bassa manovalanza da pagare il meno possibile. Ancora una volta
insomma, si sta mettendo in campo un provvedimento nemico della piccola e media
impresa che caratterizza il tessuto industriale italiano! Lo scopo resta la
deindustrializzazione dell’Italia e la distruzione della sua società?
Saccenti euro sognatori, in buona o malafede, rispondono che
queste riforme in Germania hanno dato risultati sorprendenti! E non potrebbe
essere differente dal momento che la Germania, ha visto nascere l’euro come un
vestito cucito su misura, potendo contare su un immediato vantaggio di cambio
(come se il suo marco avesse svalutato del 15-20%) e partendo da salari e
stipendi superiori alla media europea, ha giocatola carta della deflazione
salariale (senza averne bisogno e senza che la gran massa dei lavoratori
tedeschi ne potesse risentire oltremodo) per acquisire un ulteriore vantaggio a
tutto favore delle sue esportazioni.
Le riforme del mercato del lavoro tedesco hanno infatti
determinato una crescita salariale molto inferiore alla crescita media dei
paesi dell'eurozona, aumentando a parità di costi il numero degli occupati, a
scapito degli altri paesi europei. Anche per questo, pensare di riequilibrare
la bilancia occupazionale inseguendo il modello tedesco come fatto da Matteo Renzi
è un'illusione, in quando il gap, è ormai insanabile con questo tipo di
intervento, a meno di non tagliare le retribuzioni tout court del 40/50%, come
inizialmente richiesto della dirigenza Elettrolux!
Dovremmo arrivare a tanto? Quale sarà il costo economico?
Quale quello sociale?
Sembra chiaro a questo punto che il governo italiano naviga
a vista, oppure risponde a logiche e linee guida dettate altrove. Gli
interventi proposti, sono tutti di natura normativa, insufficienti o inutili ad
incidere sulle grandi strategie che hanno peso sulle dinamiche del sistema
economico.
Interventi che non incidono sulla creazione del lavoro, ma
regolano quello presente e in costante calo in altro modo:
Tempi diversi per i contratti a tempo determinato e diverse
modalità di rinnovo, riduzione dei vincoli in tema di apprendistato e diversa
disciplina delle retribuzioni, diversa regolamentazione del Durc (dichiarazione
unica di regolarità contributiva) e poi ammortizzatori sociali, pubblica
amministrazione e non meglio identificati incentivi alle imprese .
Tutto questo, senza che la Legge Fornero sia abiurata in
toto, e di cui non è chiaro cosa rimarrà.
Gli esodati restano senza risposta, e la cassa integrazione,
ormai anacronistica, non tutela più l’occupabilità, bruciando risorse pubbliche
preziose senza nulla dare in cambio.
L’aspetto più allarmante quindi risiede non tanto nel contesto ambientale
europeo, che potrei definire ormai una tonnara, dalla quale si esce soltanto
strappando la rete, ma nel metodo con cui ancora oggi, il governo italiano,
completamente asservito agli interessi eurocratici tenta di affrontare il
pericolo: ossia, la convinzione che i problemi di occupazione, di lavoro e di
reddito dei cittadini si possano risolvere per via normativa, aggiungendo o modificando
qualche regola, senza pensare di incidere sulle cause della crisi economica stessa:
La moneta unica.
L’euro, moneta forte, non adatta ad una economia come la
nostra, sta producendo disoccupazione perché ha completamente annullato la
competitività della nostra industria, impedendo la vendita dei nostri prodotti
all’estero e sul mercato interno.
Non si tratta più di capire la fregatura, si tratta di agire
di conseguenza. Se ciò non viene fatto non è per ignoranza; si tratta di alto
tradimento nei confronti dell’Italia e del popolo italiano!
Il 25 maggio, l’unico voto utile è un voto contro la moneta
unica!
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